TRA CRISI ECONOMICA E LIBERISMO: I PROFETI DEL LIBERO MERCATO QUANDO FALLISCONO INVOCANO LO STATO.
Già l’anno scorso nel nord degli Stati Uniti i segnali dell’imminente crisi economica c’erano già tutti. Distese di roulottes e di tende a fare da casa a chi la banca l’aveva pignorata per insolvenza nel pagamento delle rate del mutuo. Famiglie, singoli, ridotti quasi alla fame, gente che il giorno prima aveva un lavoro di tutto rispetto ed una carta di credito illimitata si trova ora a dover fare i conti con un realtà mutata.
Certo i mutui cosiddetti sub-prime possono essere una delle cause del tracollo dei mercati globali ma, contro l’opinione corrente di molti analisti che tendono ad etichettare queste forme di economia “creativa” come il male assoluto con il preciso compito di salvare invece il sistema nel suo complesso, bisogna fare alcune considerazioni.
Lo stesso Financial Times dell’8 aprile scorso notava che «la disuguaglianza tra i redditi negli Usa ha raggiunto il punto più alto dai tempi dell’anno del disastro: il 1929» e proseguiva così: «la caratteristica più notevole dell’era della disuguaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni Ottanta è rappresentata dal fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato». In effetti, fa notare l’economista Valdimiro Giacchè, i dati sono impressionanti e rendono chiaro il quadro economico, sociale e politico dal quale tutti noi dobbiamo partire per una corretta analisi del sistema. Tra il 1979 e il 2005 i redditi prima delle tasse delle famiglie americane più povere sono cresciuti dell’1,3% annuo, quelli del ceto medio di meno dell’1% annuo, mentre quelli dell1% più ricco della popolazione sono cresciuti del 200% annuo prima delle tasse ed addirittura del 228% dopo le tasse con la conseguenza che, negli anni tra il 2002 e il 2006, all’1% della popolazione, e cioè il più ricco, sono andati quasi i tre quarti della crescita del reddito complessivo..
In definitiva nel 2005, secondo i dati dell’Us Census Bureau, l’indice della disuguaglianza tra i redditi, ha raggiunto il massimo storico e lo stesso vale per la Gran Bretagna, ove questo si è verificato dopo l’ondata al potere dei laburisti di Blair nel 1997.
Più in generale, la riduzione della quota del Pil che va ai salari, e per contro la crescita della quota destinata ai profitti, è una tendenza che investe tutti i paesi a capitalismo maturo, come ha evidenziato una ricerca della Banca dei Regolamento Internazionali del 2007: in Italia, ad esempio, dal 1983 al 2005 i lavoratori hanno perso 8% percentuali, andati in maggiori profitti (che sono saliti nel periodo dal 23% al 31% del totale). In termini assoluti si tratta di cifre enormi: l’8% del Pil italiano è infatti qualcosa come 120 miliardi di euro! A questo si aggiungano le mancate risorse invece destinate ad armamenti e guerre mascherate da interventi umanitari.
Sono cifre spaventose ma più spaventosa è la mancanza di reazione, cioè di lotte, come afferma senza mezzi termini il Financial Times ( e non il Capitale di Marx), contro questa gigantesca redistribuzione della ricchezza verso l’alto: verso i padroni, verso i ceti più agiati, verso i banchieri e gli speculatori che, sempre restando in Italia, spostando capitali tra borse e paesi, speculando su titoli e fondi, pagano come tasse un misero 12,5% alla fonte. Un operaio o un impiegato con media-bassa retribuzione paga in imposte dirette il 27%.
Non sorprende scoprire che la dittatura mediatica e il lavaggio del cervello iniziati con forte intensità negli anni Ottanta, siano serviti proprio a confondere l’opinione pubblica disattenta e indaffarata ed inseguire il mito del denaro, della doppia casa, dell’apparire a tutti i costi, del credito facile, distogliendola dai processi reali di produzione della ricchezza. Un peso di non secondaria importanza ha giocato e giocano i fattori legati all’egemonia culturale ed ideologica esercitata dal capitalismo, che, dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione del socialismo reale nell’est europeo (ed il recupero di questi paesi in un’ottica di iper-sviluppo capitalistico senza regole e limitazioni), ha potuto riaffermare il proprio orizzonte come orizzonte ultimo della storia umana.
Ovvero l’economia di mercato, la riduzione di tutto a puro fattore economico, compreso l’uomo e i suoi affetti, devono secondo i “profeti” del libero mercato essere i dogmi su cui posare la società globale mettendo da parte concetti pericolosamente definiti obsoleti e non importanti come l’uguaglianza sostanziale, la liberta di pensiero e di azione, il diritto-dovere all’istruzione, minacciato da pure scelte economiciste, la tutela delle differenze di sesso, religione, appartenenza, provenienza.
Il capitalismo internazionale ha convinto i più della sua necessità e che questo sistema economico significava l’unica strada percorribile, togliendo di mezzo la possibilità di una gestione diversa dell’economia che parlasse di socializzazione dei mezzi di produzione, di cooperazione e non di concorrenza, di sviluppo armonico e non esplosivo a scapito dei popoli meno sviluppati e basati su economie di sussistenza, di rispetto (per la nostra stessa sopravvivenza) dell’ambiente che lancia, proprio a causa di uno sviluppo senza freni, pesanti segnali di allarme, di decrescita economica e crescita della felicità e delle relazioni sociali.
Tornando alle clamorose cifre sulla disuguaglianza dei redditi, il sistema economico (parliamo degli Usa dove è iniziato il tracollo più clamoroso) anziché rivedere la produzione e distribuzione reale delle ricchezze ha agito sganciando dall’andamento dei redditi il tenore di vita. E’ proprio qui che, secondo l’economista Giacchè, entra in gioco il settore immobiliare ed i sub-prime, accompagnati da un facile, se non indotto, accesso al credito al consumo tramite denaro elettronico (carte di credito) immediatamente disponibile.
A questo punto la politica monetaria espansiva e i bassi tassi di interesse condotta dalla Federal Reserve ha alimentato in questi anni la bolla immobiliare, consentendo al tempo stesso anche a famiglie a basso reddito di contrarre debiti relativamente a buon mercato. La crescita dei valori immobiliari ha creato un senso di ricchezza crescente, anche se il reddito non cresceva affatto, ed a questo si aggiunga la possibilità data di accedere a prestiti al consumo dando a garanzia la casa a sua volta già gravata da mutuo ipotecario. Nel frattempo, la fertile fantasia dei grandi istituti di credito americani aveva escogitato prodotti rivolti anche a chi non aveva ne reddito, ne lavoro, ne poteva offrire garanzie patrimoniali, proprio a causa della grande disuguaglianza di reddito esposta in precedenza: i mutui Ninja (no income, no job, no asset) ovvero i mutui sub-prime elegantemente denominati. Chiamandoli per quello che sono invece sarebbe opportuno definirli spazzatura, come gran parte degli economisti e dei manager che li hanno teorizzati, e che ora godono di liquidazioni milionarie e di cattedre universitarie.
Una volta concessi questi mutui venivano impacchettati, serviti e venduti come prodotti finanziari obbligazionari (dal rating, ovvero dalla quotazione, elevato, a testimonianza dell’interazione e del controllo tra società speculative e agenzie di quotazioni, che dovrebbero essere indipendenti). Lo stesso ufficio governativo statunitense per la casa e lo sviluppo urbano spinse due agenzie governative ad acquistare obbligazioni di questo genere per incentivare le banche a continuare ad offrire mutui insostenibili, come rivelato dal Washington Post del 10 giugno 2008, a testimonianza dell’intreccio tra economia e governo.
Questo castello di sabbia poteva stare in piedi se il valore degli immobili cresceva (il valore della casa acquistata cresceva e poteva essere rivenduta guadagnandoci) ma la cosa non poteva andare avanti all’infinito ed infatti il mercato immobiliare Usa ha cominciato a scendere ed infine è crollato. Con centinaia di famiglie sul lastrico, banche fallite, crolli azionari e banche che non si prestano più soldi a vicenda in quanto non si fidano più tra loro con conseguente problema di circolazione della liquidità (trappola della liquidità di keynesiana memoria) che ora resta gelosamente custodita. Conseguenza che le banche più esposte falliscono come falliscono le imprese non più supportate dal credito, le imprese che falliscono non restituiscono i prestiti ricevuti con conseguenti ulteriori scompensi e così via in un circolo vizioso.
Ne è la conferma che anche in Italia le banche chiedono ai clienti, soprattutto piccole e medie aziende, di rientrare dai fidi o fornire garanzie prima impensabili.
In definitiva è importante ribadire con Giacchè che questa crisi non nasce come crisi finanziaria, ma invece è radicata nel processo di progressiva riduzione del reddito dei lavoratori, il quale a sua volta è l’effetto della necessità di comprimere i costi del lavoro (salari) per combattere la caduta tendenziale dei profitti.
I liberisti ed i monetaristi che hanno alimentato a spron battuto politiche di deregulation nell’economia e soprattutto sul mondo del lavoro dovrebbero finire ora sul banco degli imputati e rispondere del disastro annunciato. Invece con un coraggio ed una prepotenza fuori da ogni misura invocano l’intervento dello Stato, di quello Stato tanto vituperato che hanno cercato di eliminare da ogni istante della vita economica credendo che la “mano invisibile” dell’economia riuscisse a regolamentarla: abbiamo visto che il mercato di per se non è autosufficiente, non si regola da se, anzi da se produce disastri e disuguaglianze diffuse, ovvero povertà e crisi cicliche dove i soggetti più deboli pagano sempre la penale più alta.
Mentre leggevo i dati sulla disuguaglianza reddituale esposti prima non potevo fare a meno di alcune semplici riflessioni con dati accessibili a chiunque vuole documentarsi senza dar retta all’informazione imbavagliata e guidata dalle lobbies.
Questa grande diversità, dove i redditi dell’1% della popolazione più ricca aumentano di oltre il 200% negli Usa che sono il modello di riferimento della maggioranza politica nostrana, che su base planetaria il 20% della popolazione detiene l’80% delle risorse, che alcune categorie di commercianti, liberi professionisti, imprenditori della sanità, mentre la crisi piega le famiglie, le loro entrate crescono ancora, così il 10 per cento degli italiani possiede metà del patrimonio nazionale e i nuclei familiari con patrimonio superiore ai 500mila euro (immobili esclusi) sono passati dai 692mila del 2005 ai 712mila del 2006, che a rischio povertà sono oltre il 15% delle famiglie italiane, che meccanismi di tutela dei salari dall’inflazione (scala mobile) non vi sono più, e si potrebbe andare avanti per pagine intere, mi chiedo: quale ruolo hanno giocato coloro che dovevano tutelare i salari?
Riferimento prevalente ma non esclusivo (visto il disinteresse e il profondo sonno complice dei lavoratori sul proprio destino e sul futuro dei propri figli, salvo poi svegliarsi bruscamente quando la rata del tv al plasma o dello scooter fa fatica ad essere pagata, oppure l’auto nuova e fiammante, magari come quella del datore di lavoro, deve essere rivenduta perché divenuta troppo cara da pagare a rate oppure da mantenere) ai sindacati concertativi della triplice Cgil, Cisl e Uil che si sono adeguati alla compatibilità, alla concertazione, al patto tra produttori indebolendo la classe operaia ed in genere la classe dei lavoratori. Dopo aver contribuito a smontare la classe operaia, o più in generale dei salariati, quale soggetto compatto, portatore di istanze collettiva scindendola in individui costretti a contrattare individualmente, o a piccoli gruppi, la propria sopravvivenza, ora non rimane per loro, in linea con la dottrina liberista, che abolire i contratti nazionali di lavoro in modo da lasciare i soggetti in balia di se stessi e di monsieur Le Capital (e il protocollo Sacconi a cui Cisl, Uil e Ugl si sono accodati e li a dimostrarlo). Illuderli con lo specchietto di una falsa autonomia, in modo che l’azienda possa, all’occorrenza, liberarsene.
Agli stessi confederali domando, ad esempio, perché hanno propagandato i fondi pensioni (gestiti dai loro stessi intermediari di riferimento) togliendoci anche il Tfr e la previdenza garantita dallo Stato quotandola sul mercato come merce qualsiasi? Chissà in quali fondi, in quali pacchetti finanziari saranno finiti i soldi di ignari lavoratori attratti dalle promesse di sindacalisti diventati brokers. Come quelli del fondo Comit fallito nel 2005. E con la liquidità derivante dalla sottoscrizione della previdenza integrativa o complementare cosa mai ci faranno i gestori? Li terranno aspettando i lavoratori o li investiranno a loro volta? Solo nel 2006 in Gran Bretagna i fondi “hanno comprato 1.535 società inglesi per 34 miliardi di sterline, portando il totale dei dipendenti delle società controllate a 2 milioni e 800mila, pari al 19% della forza lavoro delle aziende a capitale privato” di tutta la nazione “I sindacati” dopo aver fatto scappare i buoi, “sono sul piede di guerra e accusano di «pirateria» e «avidità» i responsabili di fondi come Permira, 3i, Cvc e Apax Partners”... e “accusano i fondi di fare soldi in fretta, portando le società fuori dalla Borsa, potando brutalmente gli organici per ridurre i costi per specularci rivendendole o reimmettendole in Borsa” creando insicurezza ed erodendo il benessere dei lavoratori”.E prendono pure in giro dicendo che: “se da un lato i lavoratori ci rimettono con i licenziamenti, dall’altra ci guadagnano investendo (con i fondi pensione) in fondi che rendono, tra l’altro, licenziando loro colleghi....” (IlSole24ore,27-2-2007). Probabilmente l’ultimo baluardo di resistenza al libero mercato è riposto nell’azione, seppur minoritaria, dei sindacati di base e di qualche punta avanzata dei confederali che credono ancora che non ci si possa inchinare sempre e comunque al dio denaro.
Gli Stati intanto salvano banche, aziende in crisi, e la mano dello Stato ora diventa comoda e invocata dai profeti del liberismo e dei loro portavoce fino a ieri convinti e sfrenati ideologi del libero mercato: il loro, si capisce, è interventismo interessato per nazionalizzare (socializzare) le perdite e privatizzare i profitti presenti e futuri.
Se non interveniamo noi, lavoratori e lavoratrici, addormentati ed in preda ad una rassegnazione gestita e controllata appositamente per delegare il nostro futuro a decisioni che ci si rivoltano contro, le cose continueranno a precipitare per molti a privilegio dei soliti pochi. Questo modello di sviluppo non è più proponibile perché produce povertà e disuguaglianze. Ci si impone un nuovo modello economico e culturale dove la crescita economica non è il fattore centrale. Si prevedono nuovi scenari dove felicemente saremo costretti a ridurre il tenore di vita e l’impronta ecologica lasciata sul pianeta…felicemente se questa condizione diviene il presupposto per lo sviluppo di tutti e per nuovi rapporti sociali dove sia abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Piermichele Pollutri (Piero)
Fonti:
Ma cosa è questa crisi? Intervista di Contropiano a Vladimiro Giacchè e Maurizio Donato (15 ottobre 2008);
Ma cos'è questa crisi? Il crack della finanza spiegato al popolo 1/2 di Valerio Evangelisti, www.carmillaonline.com; IlSole24ore, 27-2-2007; Financial Times dell’8 aprile 2008; www.altromercato.it; www.
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